di Raffaella Galvani 
Pagati poco? Soprattutto, pagati male. Cioè tutti uguale, con  poca o nessuna attenzione ai diversi livelli di professionalità o al  costo della vita che cambia nelle varie aree del Paese. Basti pensare  che 10 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato su 15 sono  ammassati in un pantano che li blocca fra i 21 mila e i 23 mila euro  lordi annui. E che un operaio di reparto di un’azienda del Nord-Ovest  nel 2008 ha portato a casa 1.175 euro netti mensili, appena 66 euro in  più di quello del Centro e poco più di un centinaio rispetto al collega  del Sud.
È quanto emerge da un’inchiesta che Panorama ha svolto con la Od&m, società di consulenza direzionale  leader nelle indagini retributive che, sulla base di una banca dati di  859.036 profili retributivi di dipendenti privati raccolti tra il 2004 e  il 2008 (in Italia sono complessivamente circa 15 milioni, su un totale  di oltre 23 milioni di occupati), ha fatto i conti in tasca a circa 600  figure tra dirigenti, quadri, impiegati e operai, suddivisi per aree  geografiche. Fotografando il livello, e l’andamento rispetto a due anni  fa, delle buste paga che realmente vengono consegnate agli italiani, al  netto di tasse, imposte e contributi.
Il tema dei bassi stipendi in Italia è stato rilanciato in questi giorni  dall’Ocse, che ha messo a confronto, uniformandole a parità di potere  d’acquisto, le retribuzioni dei 30 paesi membri. E, con 21.374 dollari  netti all’anno (pari a circa 1.200 euro al mese), ha piazzato il  dipendente italiano single senza figli al ventitreesimo posto, davanti  solo a portoghesi, cechi, turchi, polacchi, slovacchi, ungheresi e  messicani. Ben sotto la media Ocse (25.739) e anche sotto la media Ue (24.552).
Conferma Mario Vavassori, docente al Mip-Politecnico di Milano  e amministratore delegato della Od&m consulting: “In Italia siamo  pagati poco e stiamo diventando tutti sempre più poveri. Basti pensare  che nel 2008, con aumenti retributivi che hanno oscillato dallo 0,7 per  cento degli operai e l’1,3 di impiegati e quadri al 2,1 dei dirigenti,  nessuno ha tenuto dietro all’inflazione media, misurata dall’Istat con  l’indice dei prezzi al consumo al 3,3 per cento, per non parlare  dell’inflazione dei beni ad alta frequenza di consumo (come alimentari,  benzina) che è stata del 4,9 per cento”.
Se le aziende, come confermano alla Od&m, non brillano per  generosità con i loro dipendenti, il fisco e l’imposizione previdenziale  danno la mazzata. Sotto la scure di tasse, imposte locali e contributi  il dipendente medio privato, rispetto a uno stipendio lordo di 26.956  euro, nel 2008 si è visto amputare la busta paga del 28,9 per cento, con  punte del 45,7 per una retribuzione dirigenziale di 103.424 euro.
Ma secondo Vavassori c’è una lettura dei dati ancora più preoccupante.  “Il vero problema dell’Italia” sostiene deciso “non è tanto il basso  livello delle retribuzioni, quanto l’appiattimento”.
Lo confermano i dati dello studio  svolto dalla Od&m con  l’Unioncamere  sulle retribuzioni del 2007: solo 5 milioni di dipendenti  su 15 superano la media dei 26.500 euro di stipendio medio lordo ed  emerge una uniformità retributiva fra operai e impiegati, così come tra  le figure operaie qualificate e quelle semispecializzate.
“È come se il lavoro avesse un valore univoco e le aziende avessero  rinunciato a identificare e a premiare la professionalità” stigmatizza  Vavassori “mentre il sindacato per troppi anni si è preoccupato solo di  avere in mano il controllo della distribuzione quantitativa del  reddito”.
Anche sul piano territoriale l’appiattimento sta creando problemi, in  particolare là dove il costo della vita negli ultimi anni si è impennato  (vedere Milano e il Nord in generale, ma anche le grandi città del  Centro), al punto da rendere ardua la sussistenza con buste paga  ritenute solo fino a ieri sufficienti. E infatti c’è chi intende  rilanciare il tema delle gabbie salariali.
Gli esempi non mancano. Nel 2008, come risulta dalle tabelle di queste  pagine, un responsabile acquisti nel Nord-Ovest, dove la vita è più  cara, ha guadagnato 2.482 euro netti per 13 mensilità; il suo omologo   al Centro  ne ha presi 2.443, appena 39 euro in meno. Solo al Sud e  nelle Isole si è avuta una differenza un poco più significativa, con  2.352 euro netti mensili e uno stacco di 130.
Se questo è il quadro, dove è meglio orientarsi? Fermo restando che non è  così facile cambiare luogo di residenza o lavoro, dalle ricerche della  Od&m emergono comunque delle indicazioni utili. La prima? A incidere  in maniera significativa sono spesso le dimensioni aziendali. In altre  parole, più è grande l’azienda, più si guadagna.
“Le dimensioni dell’impresa” si legge nel Decimo rapporto sulle  retribuzioni della Od&m 2009 “determinano una significativa  variabilità degli importi assoluti, che presentano valori costantemente  in crescita all’aumentare dell’ampiezza delle imprese e scarti  particolarmente elevati”.
In soldoni, un dirigente in una piccola impresa nel 2008 ha guadagnato  93.782 euro lordi annui, ovvero il 9,3 per cento in meno rispetto ai  103.424  euro incassati in media dal dirigente italiano, mentre il  manager di una grande impresa ha preso 108.985, cioè il 5,4 per cento in  più. E analoghi scarti riguardano la busta paga dell’operaio, che da un  piccolo imprenditore prende 20.763 euro, il 4 per cento meno della  media di categoria (21.626), mentre dalla grande industria incassa  l’11,3 per cento in più (24.068).
Scarto meno forte invece per i quadri: dalla piccola alla grande impresa  rispetto alla media  ballano 6,7 punti percentuali in busta paga.
Da notare, dicono alla Od&m, che nel 2008 le retribuzioni nella  grande azienda sono cresciute più che nelle altre dimensioni d’azienda  per impiegati, quadri e operai, mentre i dirigenti hanno ottenuto una  retribuzione inferiore a quella del 2007. Motivo? “La categoria ha  pagato il peso maggiore dei sistemi retributivi più sofisticati legati  ai risultati che le imprese hanno introdotto per i loro manager e stanno  via via allargando ai quadri” dice Vavassori. “È probabile che il 2009  porterà quindi a questa categoria delusioni ancora maggiori visto  l’andamento dell’economia, però è indubbio che è la via corretta da  perseguire”.
Ma non è solo la dimensione a cui si deve guardare se si cerca di  mettere al riparo la propria busta paga. Il settore è altrettanto  importante, anche se non sempre tutti i lavoratori sono trattati con la  stessa generosità.
L’industria conviene soprattutto agli impiegati (nel 2008 li ha pagati  27.474 euro lordi annui, il 7 per cento in più rispetto alla media di  25.679) e agli operai (più 5,4); in generale è quella che tra il 2007 e  il 2008 ha mostrato i tassi di crescita degni di nota per tutte le  categorie. “Si va dal più 4 per cento dei dirigenti al più 3,4 degli  operai fino al più 2,1 dei quadri e al più 1,5 degli impiegati. E se  sembra poco, va segnalato che commercio e servizi in media più spesso  hanno registrato variazioni tra lo 0 e l’1 per cento” puntualizza  Vavassori.
Banche e assicurazioni, nonostante le difficoltà, continuano invece a  pagare bene soprattutto i dirigenti (5 per cento più della media), che  invece sono sottopagati (meno 1 per cento sulla media di categoria) dal  commercio.
La sorpresa? Le società di servizi del terziario avanzato, che appaiono  avare con tutte le categorie, in particolare quelle più alte. Si va  infatti, rispetto alle medie di categoria,  da meno 7,5 per cento dei  dirigenti a meno 6,2 dei quadri, fino a meno 2,1 degli impiegati. Sembra  un autogol per un settore che dovrebbe attirare proprio i talenti di  fascia alta, ma la spiegazione esiste. “In queste imprese sta prendendo  sempre più importanza la parte non monetaria della retribuzione, dal  corso prestigioso di formazione all’assicurazione sanitaria” spiega  Vavassori. E vista l’aria che tira sembra una scelta da non  sottovalutare.
Fonte:
http://blog.panorama.it/economia/2009/05/24/stipendi-dove-guadagnare-di-piu-in-un-paese-di-paghe-appiattite/
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lunedì 25 maggio 2009
domenica 10 maggio 2009
Le ricche pensioni del Senato A un commesso 8 mila euro
ROMA — Ottomila euro lordi al  mese per quindici mensilità. È la pensione spettante a quel commesso  del Senato che giusto una decina di giorni fa ha deciso di lasciare il  lavoro. All’età di 52 anni. Il più recente protagonista di un  inarrestabile e costosissimo esodo. Leggendo il bilancio di previsione  2009 approvato il 21 aprile dal consiglio di presidenza di palazzo  Madama si scopre che negli ultimi due anni i costi per pagare le  pensioni sono letteralmente esplosi.  
Fra il 2007 e il 2009 sono passati da 77,8 a quasi 90 milioni, con un aumento del 14,3%. Ma se si escludono le pensioni di reversibilità, quelle cioè pagate ai superstiti, la progressione è stata ancora più violenta: +15,6%. Dieci milioni e 800 mila euro in più. Quest’anno, sempre se le previsioni saranno rispettate (ma di solito le stime sono in difetto) la spesa per le sole pensioni «dirette» sfiorerà 80 milioni. Esattamente 79 milioni e 950 mila euro. Cifra che divisa per 598 dipendenti pensionati fa, tenetevi forte, 133.695 euro ciascuno. Vale a dire, quindici volte e mezzo l’importo di una pensione media dell’Inps. Inoltre, dettaglio non trascurabile, le pensioni del Senato seguono la dinamica degli stipendi di palazzo Madama. È stata la crescita abnorme di questa voce che ha impedito al Senato di rinunciare, come invece hanno fatto Camera e Quirinale, all’adeguamento all’inflazione programmata per il prossimo triennio? Chissà. Certamente è vero che l’aumento della spesa per le pensioni dei dipendenti si è mangiato quasi tutte le sforbiciatine fatte al bilancio di palazzo Madama.
Tanto per fare un esempio, la maggiore spesa previdenziale equivale a più del doppio del risparmio sui contributi ai gruppi parlamentari dovuto alla riduzione del numero dei partiti presenti in Senato. Ma non è che a Montecitorio la pressione di chi vuole andare in pensione sia meno forte. Fra il 2007 e il 2009 l’aumento della spesa della Camera per questo capitolo è stato infatti del 14,2%. Quest’anno le pensioni dirette e di reversibilità graveranno sul bilancio di Montecitorio per 191 milioni, circa 24 milioni in più rispetto al 2007. Quale può essere la molla che ha fatto scattare questa fuga ormai evidente? Forse il timore di un nuovo giro di vite particolarmente doloroso, che metterebbe in crisi i privilegi sopravvissuti a tutti i tentativi di riforma? Non è affatto da escludere.
Al Senato, per esempio, chi è stato assunto prima del 1998 può ancora oggi, nel 2009, andare in pensione a 50 anni di età, sia pure con una penalizzazione del 4,5%, a condizione che abbia raggiunto quota 109: la somma dell’età anagrafica, degli anni di contributi e dell’anzianità di servizio al Senato. Con 53 anni di età e la stessa quota 109 la pensione (80% dell’ultimo stipendio) è assicurata senza alcuna penalizzazione. Da tenere presente che i dipendenti entrati in Senato prima del 1998 sono la maggioranza, 609 su 1.004. E che la loro pensione si calcola con il vantaggiosissimo sistema retributivo puro, cioè in percentuale dello stipendio, anziché con il sistema contributivo (in rapporto ai contributi effettivamente versati) stabilito dalla riforma Dini del 1995 per tutti i lavoratori comuni mortali. Con lo stesso sistema retributivo sarà calcolata anche la pensione degli assunti a palazzo Madama dopo il 1998, in tutto 395. Per loro tuttavia il consiglio di presidenza ha deciso lo scorso agosto che scatta il limite minimo d’età di 57 anni. Aspetteranno un po’ di più per avere una pensione da leccarsi i baffi come già hanno avuto i loro colleghi più fortunati. Ma il famigerato sistema contributivo prima o poi arriverà anche in Senato. Sarà applicato a tutti gli assunti dal 2007. Quanti sono? Per ora, zero.
Fra il 2007 e il 2009 sono passati da 77,8 a quasi 90 milioni, con un aumento del 14,3%. Ma se si escludono le pensioni di reversibilità, quelle cioè pagate ai superstiti, la progressione è stata ancora più violenta: +15,6%. Dieci milioni e 800 mila euro in più. Quest’anno, sempre se le previsioni saranno rispettate (ma di solito le stime sono in difetto) la spesa per le sole pensioni «dirette» sfiorerà 80 milioni. Esattamente 79 milioni e 950 mila euro. Cifra che divisa per 598 dipendenti pensionati fa, tenetevi forte, 133.695 euro ciascuno. Vale a dire, quindici volte e mezzo l’importo di una pensione media dell’Inps. Inoltre, dettaglio non trascurabile, le pensioni del Senato seguono la dinamica degli stipendi di palazzo Madama. È stata la crescita abnorme di questa voce che ha impedito al Senato di rinunciare, come invece hanno fatto Camera e Quirinale, all’adeguamento all’inflazione programmata per il prossimo triennio? Chissà. Certamente è vero che l’aumento della spesa per le pensioni dei dipendenti si è mangiato quasi tutte le sforbiciatine fatte al bilancio di palazzo Madama.
Tanto per fare un esempio, la maggiore spesa previdenziale equivale a più del doppio del risparmio sui contributi ai gruppi parlamentari dovuto alla riduzione del numero dei partiti presenti in Senato. Ma non è che a Montecitorio la pressione di chi vuole andare in pensione sia meno forte. Fra il 2007 e il 2009 l’aumento della spesa della Camera per questo capitolo è stato infatti del 14,2%. Quest’anno le pensioni dirette e di reversibilità graveranno sul bilancio di Montecitorio per 191 milioni, circa 24 milioni in più rispetto al 2007. Quale può essere la molla che ha fatto scattare questa fuga ormai evidente? Forse il timore di un nuovo giro di vite particolarmente doloroso, che metterebbe in crisi i privilegi sopravvissuti a tutti i tentativi di riforma? Non è affatto da escludere.
Al Senato, per esempio, chi è stato assunto prima del 1998 può ancora oggi, nel 2009, andare in pensione a 50 anni di età, sia pure con una penalizzazione del 4,5%, a condizione che abbia raggiunto quota 109: la somma dell’età anagrafica, degli anni di contributi e dell’anzianità di servizio al Senato. Con 53 anni di età e la stessa quota 109 la pensione (80% dell’ultimo stipendio) è assicurata senza alcuna penalizzazione. Da tenere presente che i dipendenti entrati in Senato prima del 1998 sono la maggioranza, 609 su 1.004. E che la loro pensione si calcola con il vantaggiosissimo sistema retributivo puro, cioè in percentuale dello stipendio, anziché con il sistema contributivo (in rapporto ai contributi effettivamente versati) stabilito dalla riforma Dini del 1995 per tutti i lavoratori comuni mortali. Con lo stesso sistema retributivo sarà calcolata anche la pensione degli assunti a palazzo Madama dopo il 1998, in tutto 395. Per loro tuttavia il consiglio di presidenza ha deciso lo scorso agosto che scatta il limite minimo d’età di 57 anni. Aspetteranno un po’ di più per avere una pensione da leccarsi i baffi come già hanno avuto i loro colleghi più fortunati. Ma il famigerato sistema contributivo prima o poi arriverà anche in Senato. Sarà applicato a tutti gli assunti dal 2007. Quanti sono? Per ora, zero.
Sergio Rizzo
06 maggio 2009
06 maggio 2009
Fonte:
http://www.corriere.it/cronache/09_maggio_06/pensioni_senato_scandalo_6324d704-3a00-11de-9bf9-00144f02aabc.shtml  
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